Le case-museo non nacquero per essere musei ma abitazioni: chi quei luoghi ha abitato e arredato ha creato un’opera d’arte, e contemporaneamente ha scritto una sorta di autobiografia che si dispiega davanti ai tuoi occhi e ti emoziona e commuove parlandoti del suo autore con i suoi mobili, i suoi quadri, le sue sculture.
È una sorta di commozione che ti coglie infatti se ti capita di visitare in un antico palazzo nel centro di Milano una delle più preziose case museo d’Europa: il Museo Poldi Pezzoli, sede dell’abitazione di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, il quale dedicò tutto il suo tempo e fiumi di denaro a raccogliere opere di altissimo pregio - armi e armature antiche e dipinti: Botticelli, Pollaiolo, Raffaello, Canaletto, Mantegna. Praticamente dalla nascita, cioè dal 27 luglio 1822, Gian Giacomo respira raffinatezza, cultura, ricchezza.
Nel 1846, alla morte del padre, entra in possesso del patrimonio e del palazzo paterno, al numero 12 di via Manzoni, e comincia a dar vita alla sua collezione. Pur conducendo un’esistenza sentimentalmente appagante, Gian Giacomo non si sposerà mai: continuerà infatti a vivere con la madre, donna colta, amorevole e oppressiva. La morte di costei costituirà un’esperienza devastante per il giovane, il quale proprio nel collezionismo troverà la panacea per placare il dolore e alleviare la solitudine. Gian Giacomo Poldi Pezzoli muore improvvisamente il 6 aprile del 1879, solo, tra i suoi tesori. Affinché la propria collezione non andasse dispersa, aveva stilato il testamento, nel quale disponeva che alla sua morte il suo palazzo venisse trasformato in fondazione “ad uso e beneficio pubblico”.
Il palazzo creato da Poldi Pezzoli non fu solo un’opera originale e raffinata, ma costituì un modello di riferimento per altre casemuseo di collezionisti : dall’americana Isabella Stewart Gardner ai francesi Nélie Jacquemart e Edouard André. Personaggi, questi, che presentano sorprendenti analogie: ricchezza, gusto per l’arte che si trasforma in passione e sfocia nel collezionismo, il quale rappresenterà di volta in volta evasione o compensazione.
Come Gian Giacomo Poldi Pezzoli, Edouard André è ricchissimo (nasce nel 1833 a Parigi in una famiglia di banchieri protestanti alla testa di una delle più larghe fortune del tempo).
La sua è la più grande collezione d’arte italiana di Francia dopo quella del Louvre: nell’hotel particulier che si fece costruire in Boulevard Haussmann si possono ammirare Mantegna, Cima da Conegliano e Perugino, Botticelli, Paolo Uccello, Donatello e Tiepolo. Quando muore, il 16 luglio 1894, la moglie Nélie, fedele alla memoria del marito che desiderava lasciare alla Francia il suo patrimonio, dona all’Institut de France edificio e collezioni con l’impegno di farne un museo e aprirlo al pubblico.
Bizzarra ed egocentrica, amante del rischio e del gioco d’azzardo, ma soprattutto della sua collezione, l’americana Isabella Stewart Gardner. Suo, sul finire dell’Ottocento, il primo Matisse a varcare le frontiere americane, suoi gli stupefacenti dipinti firmati Vermeer, Botticelli, Tiziano, Giorgione, Raffaello, Rembrandt, Velázquez: perché Isabella doveva avere sempre il meglio e subito in ogni campo, il prezzo da pagare essendo ininfluente data l’incalcolabile ricchezza. A dare inizio alla sua spettacolare collezione, un dramma: la perdita del figlio amatissimo. Per lei, il collezionismo fu pertanto una sorta di droga per soffocare l’angoscia, di terapia per sopravvivere. Per sua espressa volontà, alla morte, il 17 giugno 1924, la villa di Boston, sede della propria abitazione, verrà trasformata in museo: l’Isabella Stewart Gardner Museum, dove trovano posto 2.500 opere d’arte.
Anche la Frick Collection, una tappa obbligata per chiunque si trovi a New York, ha origine da un trauma affettivo. Henry Clay Frick fu un personaggio complesso e contradditorio. La chiave per penetrare sotto la corazza di quest’uomo uomo impietoso è Martha, la figlia prediletta. Martha muore nel 1891 all’età di sei anni di peritonite, e la sua morte perseguiterà Frick per il resto della vita. Reagisce riversando tutto il tempo libero nella scelta dei dipinti e nel maniacale attaccamento ad essi, non a caso la sua carriera di collezionista inizia dopo la perdita di Martha. Per anestetizzare il dolore, acquista quadri che gli ricordano Martha com’era prima che si ammalasse o come sarebbe potuta diventare una volta cresciuta, e li fa sistemare nel palazzo sontuoso sulla Fifth Avenue: Corot, Turner, Millet e Monet. Poi, Goya, Vermeer, Rembrandt, bronzi rinascimentali, smalti di Limoges. E Fragonnard, Piero della Francesca, El Greco, Tiziano, Velasquez. Miliardario, solo alla testa della sua compagnia, la H. C. Frick and Company, controlla l’80% della produzione di carbone della Pensilvania. Dopo essere entrato in società con Andrew Carnegie, che ha investimenti colossali nell’industria siderurgica, da ricco diviene ricchissimo. Quando muore, nel 1919, Henry Clay lascia l’80% del patrimonio – che ammonta a 200 milioni di dollari – ad opere benefiche, e il palazzo di New York e la collezione d’arte, una delle più belle degli Stati Uniti, alla città. Questi sono solo alcuni degli innumerevoli personaggi che hanno dedicato la vita al collezionismo non soltanto per il gusto del bello e il desiderio di possesso, ma perché ha rappresentato – a seconda dei casi – l’ancora cui aggrapparsi, una sorta di surrogato del figlio perduto o mai nato, dell’amante irraggiungibile, della moglie infedele, della famiglia irrealizzata.
LE CASE MUSEO: Museo Poldi Pezzoli
di Giulietta Rovera